Contratto in lingua straniera ma disciplinato dalla legge italiana: interpretazione legata alla semantica dell’idioma utilizzato

Il significato letterale delle parole nella lingua contrattuale costituisce il punto di partenza dell’opera interpretativa

Contratto in lingua straniera ma disciplinato dalla legge italiana: interpretazione legata alla semantica dell’idioma utilizzato

L’interpretazione di un contratto redatto in lingua straniera ma disciplinato dalla legge italiana deve mantenersi ancorata alla semantica della lingua in cui è scritto, nel presupposto che chi lo sottoscrive sappia ciò che sottoscrive, e il significato letterale delle parole nella lingua contrattuale costituisce il punto di partenza dell’opera interpretativa, specialmente quando si tratti di parti attive nel commercio internazionale che utilizzano una lingua franca del settore.
Questo il chiarimento fornito dai giudici (ordinanza numero 10138 del 17 aprile 2025 della Cassazione), chiamati a prendere in esame il contenzioso relativo alla commercializzazione in Italia di alcuni prodotti naturali e fitoterapici.
Riflettori puntati, in particolare, su un obbligo contrattuale relativo all’esclusiva nella distribuzione sul territorio italiano (a San Marino e nella Città del Vaticano), oltre che sulla fornitura di prodotti non conformi alle norme italiane sull’etichettatura e di prodotti avariati.
Per i giudici,
il contratto preso in esame, redatto in inglese e regolato dalla legge italiana, contiene una clausola che prevede una penale per la violazione dell’obbligo di non concorrenza dopo la cessazione (‘expiration’, si legge) del rapporto.
La parola contestata è appunto ‘expiration’, tradotta in Tribunale come ‘scadenza naturale’ in aderenza al significato della parola in lingua inglese. Perciò, il Tribunale ha ritenuto quindi che la clausola penale si applicasse solo in caso di scadenza naturale del contratto, non in caso di risoluzione per inadempimento, come quello verificatosi.
Tale interpretazione non solo è plausibile ma è corretta, poiché presuppone, osservano i magistrati di Cassazione, la messa a fuoco della differenza tra ‘expiration’ (che fa segno alla scadenza per così dire naturale del rapporto contrattuale) e ‘termination’ (che invece indica una serie di ipotesi distinte di scioglimento per così dire anticipato del vincolo contrattuale, tra cui quella che in lingua italiana si chiamerebbe ‘risoluzione per inadempimento’).
Orbene, anche se una parte sottoscrive un contratto scritto in una lingua diversa dalla propria lingua madre, essa è tenuta a conoscere il significato di ciò che sottoscrive e deve imputare a se stessa il difetto di conoscenza (o di assistenza linguistico-giuridica all’atto della sottoscrizione, che in questo caso l’aiuti a cogliere la differenza tra ‘expiration’ e ‘termination’). Ciò vale in generale, ma vale a fortiori se si tratta di una parte attiva da oltre trent’anni nel settore del commercio internazionale e se la lingua di cui si tratta (l’inglese) è la lingua franca di quel settore.
Superfluo osservare, concludono i giudici, che il tenere presente la distinzione tra ‘expiration’ e ‘termination’ non significa sottoporre arbitrariamente al diritto inglese un contratto disciplinato dalla legge italiana, significa solo mantenerlo ancorato alla semantica della lingua in cui è scritto, nel presupposto che chi lo sottoscrive sappia ciò che sottoscrive.

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