Legittimo il licenziamento del dipendente assente perchè in carcere
Tardiva la comunicazione all’azienda, da parte del legale del lavoratore, sulla situazione del dipendente

Legittimo il licenziamento deciso da un’Azienda sanitaria locale nei confronti di un dipendente risultato assente non giustificato per un lungo periodo. Tardiva la comunicazione all’azienda, da parte del legale del lavoratore, sulla situazione del dipendente. Irrilevante il fatto che informalmente la moglie del lavoratore abbia dato la notizia al direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria locale. Nel caso specifico, il lavoratore era stato costretto in carcere, a seguito di condanna definitiva, e, quindi, era risultato assente ingiustificato, per ben due mesi, sul luogo di lavoro. Per i giudici il licenziamento è da ritenere legittimo a fronte di una assenza protratta per un tempo superiore a tre giorni - oltre due mesi, per la precisione -, tempo già ritenuto dal contratto collettivo nazionale idoneo a risolvere il rapporto, assenza, peraltro, non accompagnata da alcuna giustificazione per oltre due mesi mentre «solo nell’incontro coi difensori del lavoratore erano state chiarite le circostanze della detenzione. In sostanza, sebbene la detenzione in carcere possa rappresentare un motivo astrattamente idoneo a giustificare l'assenza, il lavoratore, per rispettare gli obblighi di correttezza e buonafede, deve provvedere ad una tempestiva comunicazione, onde porre l'azienda in condizione di riorganizzare il servizio. I giudici definiscono poi irrilevante il fatto che il direttore amministrativo dell’‘Azienda sanitaria locale’ avesse appreso informalmente dalla moglie del lavoratore che costui era in carcere, poiché l'informazione era incompleta e non idonea a consentire all'azienda di assumere i provvedimenti necessari alla sostituzione del dipendente, vista la mancanza di informazioni sulla ragione dell'arresto, sul carattere o meno temporaneo della misura, sulla durata, cioè sulle notizie minime utili per assumere le conseguenti determinazioni. (Sentenza 13383 del 16 maggio 2023 della Cassazione)