Il surplus lavorativo lamentato dalla commessa non basta per riconoscerle un risarcimento
I giudici chiariscono che non è sufficiente la verosimiglianza della natura lavorativa della patologia denunciata dal dipendente e collegata, a suo dire, al contesto lavorativo

Niente risarcimento per la commessa del negozio che è stata licenziata e, soprattutto, ha lamentato in modo generico di essere stata costretta ad un surplus lavorativo, consistente nell’osservanza di un orario di lavoro ben superiore a quello contrattualmente previsto e nella necessità di recarsi, con cadenza almeno mensile, in trasferte fuori regione, e a svolgere attività non compatibile con il proprio stato di salute (sindrome ansioso-depressiva) di cui il datore di lavoro era a conoscenza.
I giudici chiariscono che, al fine di ottenere un risarcimento del danno dal datore di lavoro, non è sufficiente la verosimiglianza della natura lavorativa della patologia denunciata dal dipendente. In sostanza, il lavoratore che chiede un risarcimento del danno - morale e biologico - subito nel contesto lavorativo deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento attribuito dal datore di lavoro. Anche perché, in linea generale, il danno non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale. Nel caso specifico, preso in esame dai giudici, il lavoratore si è limitato a presentare un certificato medico privo di alcuna indicazione circa la possibile o verosimile origine della patologia ed una relazione di parte da cui emerge la verosimiglianza dello stress lavorativo quale origine della malattia ma solo perché ciò è stato indicato dal medesimo lavoratore. (Sentenza del 29 marzo 2023 del Tribunale di Cosenza)